Leonardo

Fascicolo 13


Dalle sorgenti alle foci dello spirito
di Giuliano il Sofista (Giuseppe Prezzolini)
pp. 18-24


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I.

   Andammo, amico Giuliano, alle Sorgenti dello Spirito; è già un anno. N'andremo oggi fino alle foci. Allora su pel corso sempre più chiaro, più pazzo, più chiacchierino del torrente; ora per la grossa corrente del fiume, regolata da dighe, vigilata da ponti, percorsa da navi, sempre più ampia e più lutulenta, più calma e più sorda, il cui impeto si spenge a poco a poco nelle lagune per finire nel mare. Dall'inconscio andremo all'abitudine, dalla vita romantica alla classica, dal sogno alla legge; e ci divertiremo così a tracciare. sulle carte che non durano, l'eterno destino di tutte le cose, il cammino immutevole dei viventi, la triforme esistenza delle realtà; saremo, per un istante, se ti piace, i legislatori del mondo.
   La nostra rete metafisica abbraccerà cielo e terra, dei e diavoli, acqua e fuoco, bene e male, tutte le duplicità che hanno servito di base alle vecchie metafisiche; non solo: l'idea, l'evoluzione, il progresso, il divenire, rientreranno sotto l'ampio diglione nostro, e non saranno che piccoli giocattoli da porre catalogati per tempi e per valori nei nostri scaffali: una mano d'acciaio spremerà come un torchio ogni vita perchè pronunzi la parola e faccia il gesto di confessione e di sudditanza: il mondo sarà ai nostri piedi, inginocchiato, come un penitente che chieda espiazione, o un condannato che implori sentenza; e quando vedremo l'universo intento in noi, come soffocato dall'ansia, su per i silenzi interplanetari, di astro in astro, d'atomo in atomo, volerà la nostra legge, le eco ripeteranno la nostra formula, e il Tutto che avrà ricevuta coscienza da noi si sentirà trasfuso d'una nuova vita, come se la nostra parola l'avesse ristorato di tutte le fatiche passate, e l'avesse accarezzato con un sogno così blando e così dolce, da provarne vertigini mortali.
   Oppure la nostra parola sarà terribile e come uno sgherro feroce porterà le catene ad ogni essere, e suonerà tremenda più delle trombe Apocalittiche: sarà il Giudizio Universale non degli uomini, ma del Tutto, dall'atomo a Dio.
   Tale, amico Giuliano, è il potere del filosofo. Se il suo spirito è il Tutto, egli ne è legislatore e giudice; può assolvere e condannare, sciogliere e stringere. Vuoi tu essere il Cristo, o lo Jehova dell'Universo?
   Piano, amica mia. Non montarti troppo; ippogrifo allegorico è un bell'animale nei poemi ariosteschi; ma stuona, tu lo vedi, nel mondo delle idee. Sento già la platea che mormora e dice: questa è letteratura! Non gonfiare la voce con il rimbombo della cava maschera, non mettere l'alto coturno per darti maestà; lascia coteste apparenze di attore tragico, e ricorda, amica mia, che qui siamo fra i comici. A noi non è concesso che danzare la sikinnìs dei satiri. Siamo — lo si dice — i giornalisti, i belli spiriti, i giocolieri della filosofia; abbiamo un granello di fantasia e due quattrini di vis comica; i più benevoli non ci negano neppure un'infarinatura d'erudizione, Ma da questo a quel che tu proponi, amica mia, corre un abisso che neanche la superbia di Satana potrebbe colmare. Come vuoi che voliamo fra le nuvole, anzi fuori e sopra le nuvole, più in alto che tutti gli alti, se non abbiamo in tasca nemmeno duemila schedine bibliografiche, e manchiamo di metodo e di pazienza e di serietà? Tu vuoi farci inforcare il cavallo del genio; e non sai tu che il genio è paziente mediocrità? saresti forse l'apparizione del Maligno che vuol tentare la nostra superbia? ci vorresti forse Icari novelli della Metafisica, per farci bruciacchiare le alucce appena spuntate al pallido sole dell'Assoluto, senza neppure il compenso del pianto dei pioppi lombardi? Prima ch'io venga teco, dimmi dunque chi sei, donde vieni, dove vai. Spogliati e definisciti. É molto tempo che io m'aggiro pei meandri tortuosi del mio dedalico animo, e credo d'averci speso molti gomitoli di filo logico e molte settimane di introspezione fantastica: ma non t'aveva mai incontrata, o nuovamente sbocciata apparizione che mi inviti a così sublimi viaggi!
   Chi sono? Tu vuoi che io mi definisca ossia mi cambi e mi uccida, perchè definirsi è cangiarsi morire e tornare a vita con volto novello. Io sono misteriosa ed incognita: se prendo un volto e un nome tutta la mia bellezza e persona svaniranno. Io sono quello che tu non conosci; se tu mi conoscerai, non sarò più quello ma un altro. La scienza uccide la vita, stravolge l'apparenza, e quando d'un corpo ha fatto un cadavere, dice d'avere portato un sassolino al suo grande edificio: abiterebbe forse una vasta necropoli?
   Io vivo da molto tempo entro di te. Ma tu non mi hai sentito. Figlia di chi? Voi uomini moderni prostituti dell'intelletto, vi coricate con troppi e troppo vari amanti perchè io lo possa dire. Non v'è marinaio o straniero che sbarchi al vostro paese che non lo accolgano le vostre braccia; e non disdegnate i baci dei giovini conterranei, e le carezze dei vecchi di vostra razza. La divina ignoranza, che era madre, una volta, di così potenti generazioni, non è più che una vecchia rattrappita mostrata come rarità di museo. Non forse oggi tu hai cantato i Salmi con David, recitati gli Inni alla Notte con Novalis, e con Chantepie de la Saussaye non hai tu vissuto la vita e la dottrina di Maometto? L'occhio che scorreva le male impresse linee di venti giornali ti ha condotto dai negri ai turchi, in Russia e in Giappone, e la tua fantasia s'è data ad una corsa pazza per tutte le parti del mondo. Come vuoi tu che sappia di chi sono figlia?
   Io m'agitava nel tuo animo da lungo tempo come un figlio nel seno materno, aspettando la parola fatidica e liberatrice che dovesse condurmi alla luce e al respiro della coscienza. Voi filosofi, siete levatrici di idee, come gli artisti di visioni, e i musici di ritmi. Gli uni e gli altri momenti e punti in cui si manifesta l'Inconscio; di là vengo io, che sono la tua Aspirazione Metafisica.
   Metafisica? parla piano e scappa presto. Se ti sentono ci tireranno sassate. Metafisica è roba proibita, tendenza reazionaria, merce scandalosa. Copriti almeno di parole e non gridare forte la tua qualità. Sopratutto non gridare a questo modo: sarebbero capaci di dire che fai della retorica, e di condannarmi nel capo per delitto di contradizione, avendo pochi giorni fà tartassato questa signora di razza italiana.
   E giacchè m'inviti a un viaggio, accetto. Verrò teco, ma col patto di non andare in alto. Oggi, amica mia, non sono in vena di ascensioni e non mi persuaderesti al cimento metafisico neppure con le mongolfiere della dialettica Hegeliana, nè con gli aereonave più perfezionati della metodologia scientifica. Lasciamo le grandi aspirazioni; facciamo del pensiero a scartamento ridotto. Invece di disturbare e soffocare nei loro covi le talpe del positivismo, diamoci ad un viaggetto per acqua, quello di cui m'hai parlato in principio, giù pel fiume dello spirito. Ma non plus ultra. Alle foci ci fermeremo; e come se fossimo gente bene ordinata, di fronte ai grandi orizzonti del mare avremo un grande rispetto per il Dio Termine da noi a noi stessi imposto.

Liberiamoci dalle abitudini: saremo degli Dei.
DOSTOEVSKIJ.

   Alderabano, prima d'andare a scuola di scherma, aveva parecchie volte fatti degli a fondo e delle inquartate; ma senza saperlo. Quando il suo maestro gli pose in mano una spada, e gli insegnò l'utilità della terza e della quarta, e i fini dei contri e delle sbassate, allora il suo corpo divenne più ricco di attitudini ed acquistò nuove potenze. Con l'imitazione e con l'esercizio, provando e ripetendo, egli migliorò le sue posizioni, e dagli sguaiati primi tentativi a poco a poco riescì a formare di sè un perfetto maneggiatore di fioretto. Le azioni le imparò staccate, una ad una; ma quando la meccanica ne fu costituita ed assicurata nel corpo, sicchè non gli occorreva che il grido del maestro, o lo scatto della propria volontà, per mettere in moto nervi e muscoli, come il grilletto appena sfiorato d'un'arma da fuoco sensibile fa partire il colpo, allora egli salì in presunzione e volle collegare ed organizzare le azioni staccate; volle dalla anatomia passare alla fisiologia della scherma. Le botte e le risposte si inseguirono rapide ed armoniose, obbedendo tutte ad fine, facendo parte di un disegno, occupando un posto gerarchico in un organismo. Egli non fu più discepolo, ma schermitore con uno stile e un valore proprio. La coscienza, che doveva prima condurre per mano ogni particolare delle sue azioni, dal modo di tenere la guardia fino a quello di dirigere la punta, lasciò alle abitudini già formate libertà di svolgimento, ciascuna essendo già bene educata e capace di autonomia; e si contentò di chiamarle ad una ad una per rendere i dovuti servizi, attendendo solo a non confondere quella con questa; ed esse furono pronte, come se stessero acquattate in un magazzino, pronte a risorgere e ad agire nel momento opportuno. Così a poco a poco lo sforzo diminuì, la fatica dei primi giorni cessò, il lavoro dei muscoli divenne occupazione di mente; e il tempo perso prima nello stendere il corpo, nell'arcuare il braccio, nel rinvigorire il pugno, nel fare plastico ogni membro, fu occupato nello scoprire astuzie di guerra, scorciatoie d'azione, finezze di finte e di controfinte. — Un bel giorno Alderabano dovè andare in America; e per due mesi lasciò i fioretti e la maschera appesi ad un chiodo come trofei del passato. Al ritorno pensò mestamente che sarebbe costretto ricominciare da capo, dagli a fondo sguaiati, e dalle quarte sbagliate; ma fu grande meraviglia, quando sulla pedana, dopo i primi colpi, si senti invadere da le vecchie persone cui aveva dato vita la sua ostinata preparazione. Le abitudini riaccorsero al grido, riaccesero la vita pei membri, ripresero il dominio del corpo; e Alderabano fu l'impeccabile schermitore di prima. — Un'altra volta si dovè recare in paese straniero; e condusse seco la fida amica, la spada. Ma in un torneo contro gli stranieri fu vinto. Invece dei soliti avversari e della solita scuola, trovò nuovi combattenti e nuovo sistema. Le sue azioni non riescivano al fine; certe posizioni erano insufficienti, altre sbagliate e pericolose; e le dovè cambiare, rinnovare, modificare.
   Prese un altro maestro, e si dette per novizio. Ma il maestro non fu ingannato: «peggiore scolaro» disse «quello che ha cattive abitudini, che quello che non ne ha punte.» Alderabano ritornò a pensare sulle proprie azioni; la coscienza rifece le strade percorse, e illuminò di nuovo le macchine che agivano nelle tenebre della abitudine; il pensiero inquisitorio volle correggere e ripulire. E invece di stilizzare e organizzare come prima, di mettere dighe e stringer catene, disorganizzò, svitò, smontò pezzo per pezze, tutte le macchine. La coscienza non costruì, ma disgregò. Così Alberabano riescì a mantenersi degno dei nuovi campioni stranieri. Diventò celebre, ebbe scolari ed imitatori; finchè un bel giorno un Arabo sbarcato di lontano, lo vinse sulla pedana, dove era venuto avendo nel cuore la certezza della centesima vittoria. Questa volta non fu più capace di rinnovarsi, e la sua scherma passò nei manuali di storia come le sue spade nelle vetrine dei musei. Alderabano ebbe allora il diploma di Immortale dalla Accademia dei Maestri di Scherma.
   La storia del maestro di scherma Alderabano, non è, o lettore, una favoletta morale, nè un intermezzo digressivo per risvegliarti con un raccontino dalle astroserie filosofiche. Essa ha una parte importante nella economia del mio scritto, come quella che simboleggia col suo svolgimento, lo svolgimento di ogni nostra umana attività: pratica, teorica, estetica. La vita sociale e quella logica, come l'artistica, queste tre fiamme aguzze del fuoco del nostro spirito, evolvono divengono scorrono (con quella parola che tu vorrai, Spenceriana Hegeliana Eraclitea) per tre stati: l'inconscio, la coscienza, l'abitudine.
   Come quelli di Alderabano i nostri primi atti non sono coscienti nè volontari. Sorgono dalle profondità dell'io e pullulano alla superficie come si vede l'acqua sorgiva alla superficie dei pozzi; vengono come visitatori sconosciuti e passano pel nostro regno; entrano come personaggi della nostra commedia scaturendo dal palcoscenico, piombando dal cielo, penetrando dalle quinte. Il fanciullo impara a caso ad usare del proprio corpo, per successive esperienze dei propri poteri; cadute ed urti gli rivelano inaspettate elasticità di muscoli, vivacità sconosciute di reflessi, violenze ignote di immagini affettive; per dominio di istinti, per comando di impulsi, egli tenta il suo corpo e costruisce il mondo con le sue esperienze. L'imitazione le migliora, la ripetizione le sveltisce, l'abitudine le incorpora al suo io. Come Alderabano ogni nuovo ambiente è una nuova scuola di scherma; ogni persona un maestro da tentar da imitare; come Alderabano il fanciullo diviene a sua volta in virilità capo ed insegnante, e le sue esperienze stilizzate servono di modello alle giovini generazioni. Quando infine è vecchio, incapace a rinnovare le abitudini, è soffocato da esse e muore. Come Alderabano morendo, diventa immortale, perchè, piccolo o grande lascia il suo segno nel mondo e nella tradizione.
   Da bimbi abbiamo troppo poche abitudini; da vecchi troppo numerose; giovini siamo abbastanza plastici, in età troppo cristallizzati. La virilità è l'età della coscienza libera, che d'una parte lavora a formare abitudini utili, come base delle sue attività superiori, e dall'altra riesce a disgregare le abitudini nocive.
   L'attitudine è il fattore sociale per eccellenza; la coscienza il fattore anti-sociale. L'abitudine è utilissima; tutta la nostra vita pratica è composta di abitudini che vanno da quelle corporali a quelle mentali. L'abitudine costituisce infatti una serie di servitori automatici entro la nostra persona, per mantenere i quali non dobbiamo spendere punta moneta di pensiero. Essa va dall'atto macchinale con cui senza pensare ci allacciamo i bottoni della giacca, fino al luogo comune e alla formula che s'adatta ai tempi e alle necessità che ci circondano. È un tesoro d'atti coscienti, che la ripetizione ha reso inutili. Ma è anche l'uccisione del libero esame, la tomba della spontaneità, la cristallizzazione dell'inconscio. Ma siccome libero esame, spontaneità, moti inconsci, sono negazioni della vita sociale, la quale si basa essenzialmente sulla stabilità e sulla fissità, così un pensatore ha profetizzato che l'intelligenza umana è destinata a finire in istinto, come è avvenuto di altre specie animali. La coscienza sparirebbe, lasciando piena libertà all'atto incosciente, necessariamente perfetto nel limite dei suoi fini. L'uomo cosciente sarebbe uno scolaretto che si rivelerebbe maestro solo il giorno in cui fosse diventato una macchina delicata, ma sicura, come il castoro e come l'ape. La quale veduta è d'accordo con le tendenze collettiviste, con la tirannia dello stato, e con quanto sappiamo di certe perfette organizzazioni sociali, da Sparta al Paraguay dei Gesuiti, dove ogni azione individuale, spontanea, era soffocata dalla tradizione e dai legami sociali.
   Perciò ogni società ben organizzata ha un odio palese o nascosto per tutti i fattori della coscienza disorganizzatrice: cioè per la vita intima, per la solitudine, per la riflessione, per il misticismo, per l'orgoglio, per la pazzia, per la fantasia, per il sogno; per tutte le tendenze che eccitando più o meno l'incosciente, scavano nella sua direzione e traggono alla luce della coscienza i suoi prodotti essenzialmente individuali, per tutte le tendenze che portando la fiaccola dell'attenzione sulle abitudine mentali e pratiche, dissociando le idee e disgregando le azioni, generano i tipi anti-sociali del filosofo, e dell'ironista. Il poeta, tipo dell'individuo incosciente, e il filosofo tipo dell'individuo disgregatore, sono egualmente anti-sociali, come due forze che partendo da punti diversi in uno solo s'appuntano per rovesciarlo.
   Il poeta e il filosofo generano però il retore e il professore di filosofia; i quali, cadendo nella categoria degli abitudinari, sono persone pratiche e sociali. Essi rappresentano gli sforzi geniali cristallizzati, formulati, resi luogo comune. Sono la rivoluzione diventata governo, la creazione fatta copia, il torrente trasformato in canale navigabile.
   Se esaminiamo dunque il valore della coscienza nella attività pratica, sia quella d'azione che di pensiero, noi troviamo che esso è essenzialmente antagonistico con i fini sociali; la coscienza negli atti pratici non fa che disturbare e disorganizzare; l'ideale dell'uomo pratico è l'uomo macchina, l'uomo castoro o formica.
   Una simile trilogia può esser tracciata nella attività teorica, nella vita della scienza. La genialità scientifica, è incosciente; la scoperta anche matematica, è dovuta a un atto fantastico; e le idee generali che sorgono nella mente dei grandi scienziati non sono che felici voli pindarici che si adattano utilmente per un dato tempo ai bisogni della scienza. La scienza è creazione come la poesia. Da questo primo stadio, che si può osservare studiando i grandi inventori e i grandi scienziati, che ha prove evidenti nelle scoperte di Newton e di Galileo e di Darwin, si passa allo stato cosciente, che formula in linguaggio possibilmente algebrico la creazione fantastica, vi adatta i fatti, ne sperimenta la virtù organizzatrice, esplicativa e attiva; è il lavoro molte volte del genio stesso, ma più spesso del semplice ingegno, che corrisponde alla fatica dell'artista intorno alla creazione del poeta; è il lavoro di lima dello scienziato. Questo lavoro può durare dieci anni, come per Darwin; o pochi mesi come per Goethe; ma la creazione della idea generale, è, come si legge nelle memorie di loro, sempre istantanea; all'uno la legge di Malthus, all'altro la semplice vista dì un osso, fanno intuire, creare, fantasticare, dei ravvicinamenti di fatti, che punto differiscono dalla poesia, se non nella loro utilità scientifica. Alla coscienza segue l'abitudine, l'applicazione minuta, estesa, continua del principio scoperto. Tale lavoro è fatto dai propandisti entusiasti, dagli accademici freddi, dagli insegnanti interessati. La scoperta che prima sconvolge il mondo scientifico, viene adottata, poi dogmatizzata; è scandalo porla in dubbio, come prima era scandalo accettarla. La stessa mediocrità intellettuale che cinquanta anni fà osteggiava Darwin, ora combatte chi non l'ossequia. Il paradosso è diventato dogma, la scuola ribelle accademia, e il manipolo dei liberi cercatori casta. Così dall'inconscio, traverso la coscienza, la scoperta scientifica è diventata abitudine.
   Tale abitudine non sempre è nociva. Molte volte, almeno in quanto la scienza è attività pratica, essa è utile. L'abitudine che permette di fare grossi calcoli a prima vista, senza perdere il tempo e il pensiero nelle minuzie permette allo scienziato di occupare l'uno e l'altro in attività più alte. Le formule scientifiche corrispondono nell'organismo della scienza alle abitudini nei nostri organismi; le quali liberandoci dal doverci occupare colla mente e della digestione e della circolazione sanguigna, e del camminare, e dell'evitare gli ostacoli (tutte cose che facciamo senza pensarci su, e tanto meglio quanto le facciamo senza analizzarle) ci permettono di dare la mente alla astrazione e alla contemplazione. Se domani tutta la vita pratica passasse in abitudine, la vita teorica ci guadagnerebbe infinitamente.
   Se invece le nostre abitudini si disorganizzassero e fossimo costretti a comandare al cuore di pulsare o alle gambe di camminare, non potremmo più fare filosofia, nè avere intuizioni poetiche. Così quel pensatore che ho sopra citato, ha torto quando crede che il crescere delle abitudini ucciderà l'intelligenza; giacché, se le abitudini si limiteranno alla vita pratica, l'intelligenza sarà più libera dí pensare e di creare. Noi ancora non sappiamo a quali domini insperati di metafisica e di poesia ci condurrà il giorno in cui íl lavoro sarà abolito, e la vita animale resa tutta una serie di abitudini.
   Nell'attività teorica la coscienza ha, in conclusione, un officio sterilizzatore, che creando abitudini permette al pensiero e alla creazione di innalzarsi a maggiore libertà ed altezza. Essa è l'architetto di una forte base per reggere i grandi monumenti della fantasia filosofica, scientifica, artistica.
   L'esame dell'attività estetica ci permette di ritrovare la stessa architettura a tre piani che abbiamo di sopra tracciata per l'attività pratica e per quella teorica. L'arte, in quanto fantasma interno, è inconscia e involontaria, non imitabile e non comunicabile; il pittore non cerca le sue figure, nè il poeta i suoi ritmi per la semplice ragione, che per cercare una cosa bisogna già conoscerla; e una figura e un ritmo conosciuto, vuol dire opera d'arte già formata internamente. Ma da questo atto geniale, si passa a quello tecnico e comunicativo, pel pittore a dipingere, pel poeta allo scrivere; e allora sui loro quadri e sui loro versi, si formano le regole e le metriche, gli stili e le retoriche. Ai maestri succedono i discepoli che senza avere spontaneamente i fantasmi artistici riproducono più o meno esattamente le espressioni dei maestri. A Giotto seguono i giotteschi, a Petrarca i petrarchisti; il gesto fissato, l'attitudine regolamentare, il colore di prammatica mostrano che dalla incoscienza si è passati alla abitudine; così dall'immagine veduta nei sonetti del Petrarca si passa alla verbalità sonora dei petrarchisti. Il cammino è lo stesso; varia soltanto nel ciclo il valore della coscienza che è diverso per l'artista da quello dell'uomo sociale o dello scienziato. Per stabilire questo valore dobbiamo occuparci d'un problema molto moderno: quello delle idee negli artisti.
   Senza ripetere ciò che ha detto il Croce sulla divisione fra logica e fantasia, mi contenterò d'osservare che l'estetica dei grandi artisti è in singolare contrasto con le loro opere; e quanto queste son belle, altrettanto quella è ridicola. Le estetiche di Leonardo e di Segantini trovano la migliore confutazione nei loro quadri; le idee di Tolstoi fanno a pugni con le sue migliori pagine di scrittore; Dante è artista sommo proprio appunto quando non sarebbe tale secondo le teorie sue. Difficilmente nella stessa persona coabitano un critico non del tutto ingenuo un artista non del tutto antipatico; e quando un sommo scrittore è foderato d'un apprezzatore fine, come in Goethe, o d'un analista violento, come in Barbey d'Aurevilly (ed è cosa rara) è necessità ammettere in loro dei momenti così differenti di attività tali da costruire in loro due persone assolutamente disgiunte. Ed anche gli esempi da noi citati falliscono quando il critico voglia giudicare del creatore, percbè, ad esempio, Goethe stimò più che ogni altra sua opera le Affinità Elettive, che nessuno più legge.
   Questo divorzio necessario fra pensatore ed artista vorrebbe essere violato da molti moderni, i quali costringono la propria arte al concubinaggio con la logica, e stuprano i propri lavori con le intenzioni dimostrative o descrittive dei trattati di patologia. Da questi connubi innaturali abbiamo avuto la musica descrittiva, la pittura letteraria, la letteratura sociale, ed altri minotauri del genere. V'è alcuno che per scolpire dei minatori seminudi pensa di aver difeso il proletariato dallo sfruttamento capitalista; un altro si lascia illudere da l'ideale aristocratico e non dipinge che guerrieri e femmine di corte, anche se la sua spontaneità ci rimette. Talora soltanto le idee si accordano elasticamente con i fantasmi, e allora ne esce la grande opera; grande non per l'influenza delle idee, ma malgrado l'influenza delle idee.
   C'è il mio amico de Karolis, che quando era tolstoiano, dipingeva dolci madonne umbre alate, col pargolo in braccio, circondate d'angeli misteriosi, abitanti in paesi d'una melanconica blandizia; ora che è pano, allieta i quadri con le Primavere nude, e con la Decima Musa arditamente energica sul fondo d'un dolcissimo mandorlo fiorito. Ma allora ed ora, egli è sempre lo stesso artista; allora ed ora, le sue donne portano l'impronta della sua fantasia creatrice, e le visioni cristiane e quelle pane, in quanto corpo, in quanto forma, in quanto arte, sono sorelle. Fortunatamente l'artista non è stato soffocato dalla logica; e la concezione del mondo non ha ucciso le tenere figure del sognatore marchigiano. L'artista è sfuggito al pericolo; la sua immaginazione è stata più forte della sua logica.
   Il pericolo è il razionalismo nell'arte. L'artista che si propone di dimostrare e di difendere, può esser condotto a correggere una linea, a tagliuzzare una figura, a modificare un effetto di luce. La visione cede il posto all'idea; l'artista allora paralizza l'arte. Sono noti i saggi su Dante del De Sanctis, e l'abilità con cui il critico napoletano coglie il poeta in fallo ogni volta che si ricorda di San Tommaso e dimentica sè stesso; e l'abilità con cui ci mostra l'erompere della fantasia fuori delle dighe allegoriche, spezzando le catene del simbolo.
   Le idee sono una pericolosa illusione per l'artista; egli, in quanto tale, è incosciente, e non sa nè può fare logica e filosofia. La coscienza è un peso malgrado e non per mezzo del quale egli opera. Essa si aggiunge come un parassita alle sue figure, e ne storna le forze a fini che esse non hanno. Accade allora nel mondo dell'arte, quello che nel mondo pratico avviene spesso; che, mentre i motivi logici noi li poniamo dopo l'azione, o dopo aver decretato l'azione, per metterci in regola con le nostre abitudini razionali, tuttavia li crediamo anteriori e cagionatori della nostra azione. Noi ci facciamo molto più egoisti di quel che non siamo, pensando, come sovente accade, di fare alcunchè pel nostro piacere o per fuggire il dolore; mentre invece noi siamo agiti, la immagini affettive, da impulsi e da istinti, che dopo giustifichiamo come ricerca del nostro benessere. Al caso che domina il nostro volere, noi sostituiamo la provvidenza dell'edonismo; alla contingenza preferiamo stoltamente il determinismo, Cosi l'artista che è spinto dal sogno che s'agita in lui, e dal ritmo che si impone alla sua parola, a esprimersi in quadri e in versi, trova ai quadri e ai versi un fine e una ragione logica che non hanno; nè s'accorge che li falsifica e li abbassa.
   L'artista — è l'unica cosa che di Socrate io accetti — è un inspirato, un demoniaco, un pazzo. La coscienza che egli acquista dei suoi prodotti pitici, lo fa divagare inutilmente e spesso con danno sulla sua arte.
   In riassunto, la coscienza nella attività estetica è un illusione nociva.
   La coscienza è dunque dannosa nell'attività pratica perchè impedisce le abitudini; nell'estetica, perchè impedisce l'inconscio e genera l'illusione razionalista; — è invece utile nella attività teorica perchè stilizza le scoperte geniali e prepara le abitudini utili e liberatrici delle attività superiori. L'ideale dell'uomo è dunque: l'abitudine nella vita pratica, la coscienza nella teorica, l'incoscienza nella estetica. La prima si traduce nel rispetto all'uso ed alla tradizione e nell'imitazione dell'ambiente; la seconda nell'attitudine disgregatrice e dissociativa delle abitudini mentali, dei luoghi comuni e delle formole accettate, e nell'attitudine, illuminatrice della vita intima riflessiva che strappa all'inconscio i suoi segreti; la terza nel ripudio dell'abitudine e della coscienza e nel completo abbandono alla propria natura e al demone inspiratore.
   Questa è la morale che corrisponde nei suoi tre gradi, ai tre gradi in cui la metafisica fissa la legge del mondo.
   La metafisica migliore è quella che cerca di rendere le cose simili a noi; giacché soltanto ciò che è simile a noi possiamo meglio comprendere, di modo che, sforzarsi di capire equivale ad antropomorfizzare, e non v'è metafisica vera che non sia antropomorfica.
   Bisogna quindi tradurre il mondo in termini psichici: in inconscio, in coscienza, in abitudine.
   Ogni cosa esistente percorre questo ciclo; e noi la conosciamo in uno di questi tre stati. Il corpo nostro disegna alle anime altrui le direzioni in cui noi cerchiamo di fabbricarci il mondo; il corpo è veramente ombra dell'anima, la proiezione dei nostri desideri, la tangibilità delle nostre intenzioni.
   La materia con le sue leggi fisse non è che abitudine; il sogno non ne è che il termine contrario; il pensiero quello medio. Il sentimento religioso si muta in dottrina e finisce in dogma; le rivoluzioni riescono a governi stabili e antirivoluzionari, i ribelli producono ministri reazionari; i paradossi di ieri, sono i luoghi comuni di oggi; la vita si rattrappisce nell'espressione, la sensazione si mummifica in parola; il sentimento del filosofo prende la veste grave di sistema nel discepolo; l'amore si impoverisce in dovere col matrimonio; il piacere si mussa, e la ripetizione ne spunta il pungolo; lo spirito perde coscienza e si fa materia; il dominato diventa dominatore.
   La luna e il sole, che cosi plasticamente obbediscono alle leggi imposte dagli astronomi non sono forse che sogni pietrificati.
   Amica mia, ricordate la promessa e deponetemi a terra; vi avventurate in alto mare, e non vorrei che mi accadesse quello che avvenne ad Heine traversando da Heligoland a Brema; egli aveva — lo ricordate! — letto troppo la Bibbia, e il mal di mare gli facea tornare a gola Gionata e l'immensa balena, il vecchio Jehova e la sottile Eva; così, amica mia, potrebbe avvenire a me, che ho letto tanta metafisica. Mentre mi conducevate pel fiume, ho visto — voi sapete che sono un visionario — un piccolo gnomo occhialuto e polveroso al mio fianco; che alle vostre parole faceva ogni tanto di cappello togliendosi di testa un suo berrettaccio di velluto, come quello di Erasmo nel ritratto di Holbein. Ho visto anche che mormorava qualcosa, e da curioso qual sono, avendo teso l'orecchio ho sentito: La riverisco, signor Boutroux! Stia bene professor Remacle! Good day, egregio James! Servitor suo Monsieur Bergson! Orbene cara amica, se non mi deponete subito a terra, vi minaccio una terribile punizione per avere violato il contratto: vi minaccio, niente di meno, di spifferarvi senza dimenticarne uno, nomi e cognomi di autori ed editori, dei libri che v'han suggerito tante corbellerie. Se invece manterrete i patti ebbene, amica mia, vi ringrazierò sinceramente d'avermi fatto passare un'ora in buona compnia e vi pregherò di tornare ancora e per viaggi maggiori.
   Tornate quando potremo andare a far visita agli astri; voglio sapere da Marte e da Venere cosa ne pensano della ipotesi dei sogni pietrificati.


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